di Marino D’Amore

L’acronimo Nimby: not in my back yard, ossia non nel mio cortile, caratterizza un atteggiamento negativo, un’accezione che si esteriorizza nelle proteste contro opere di interesse pubblico e attività che hanno, o si teme possano avere, effetti negativi sul territorio in cui verranno realizzate: ad esempio grandi vie di comunicazione, sviluppi insediativi o industriali, inceneritori e centrali termiche, termovalorizzatori, discariche, depositi di sostanze pericolose, centrali nucleari. Tali considerazioni attualizzano una situazione paradossale che si esplica attraverso una valutazione dicotomica: da una parte si riconoscono come necessari gli oggetti del contendere, ma, al contempo, nel dichiararli indesiderati sul proprio territorio per le controindicazioni che apportano sulla salute pubblica e sull’ambiente (Fredi, Mannarini, 2008).

Nel 2004 il movimento si struttura da un punto di vista organizzativo e nasce il Nimby Forum concretizzando la ferma volontà di monitorare l’entità numerica e la composizione delle contestazioni legate alla costruzione di nuovi impianti, infrastrutture, attraverso la creazione di un osservatorio costantemente interconnesso che ponga in essere azioni di controllo dedicato, sia attraverso interventi diretti sia su un piano meramente digitale. Azioni mirate a neutralizzare tutte quelle spinte endogene efficaci nell’ostacolare e, a volte, bloccare definitivamente la realizzazione delle opere sopracitate. I promotori del forum hanno così dato vita a un’iniziativa per comprendere, quantificare e gestire al meglio la portata dei movimenti di opposizione, ritenendo che in situazioni di questo tipo diventa essenziale articolare, fin dalla fase di pianificazione territoriale e di progettazione preliminare, una politica del consenso, parte integrante del progetto stesso, che ne mitighi il rifiuto della popolazione autoctona, faciliti l’iter burocratico di approvazione e ne concretizzi la successiva fase costruttiva (Bettoni, 2012).

In un mondo globalizzato la sindrome Nimby si diffonde secondo modalità omologanti, ma al contempo, il alcuni casi si declina localmente, obbedendo a istanze di glocalizzazione: gli anglosassoni, ad esempio, per indicare la degenerazione acritica del Nimby, utilizzano l’acronimo BANANA, ovvero “Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything” (non costruire assolutamente nulla vicino a qualsiasi cosa). L’utilizzo del termine “sindrome” evidenzia l’accezione negativa che si sostanzia in un’opposizione alla realizzazione dell’opera, che rifiuta il contradditorio e alimenta le critiche verso i vari aspetti del progetto e della procedura di attuazione.

Specularmente i fautori della protesta mettono in discussione l’intero percorso che ha portato alla realizzazione del progetto, e sostengono che l’etichetta NIMBY sia solo strumentale, utile solo ad impedire una discussione serena ed approfondita sull’argomento (Spina, 2010).

La dottoressa Ketty Tabakov, responsabile degli affari istituzionali e rapporti con il territorio per la Edison, interrogata sull’argomento ha sottolineato l’importanza di un’informazione esaustiva che deve connotare ogni azione dell’ente promotore dell’opera, degli esperti, delle istituzioni, perseguendo la totale comprensione del progetto da parte dei cittadini interessati. Questi ultimi devono essere informati correttamente e completamente, sia su una base scientifica sia su una meramente amministrativa. Un dialogo trasparente e aperto con gli stakeholder sul territorio diventa fondamentale. La capacità di informare e chiarire con un linguaggio semplice e divulgativo gli aspetti e l’attuazione di progetti molto complessi, diviene imprescindibile, ma soprattutto molto utile nel mitigare il conflitto.
La sindrome NIMBY è sicuramente una delle questioni principali a caratterizzare il conflitto politico-sociale riguardo, ad esempio, alle problematiche ecologiche. Essa si dicotomizza secondo due rivoli semantici confliggenti, celando la sua vera natura, divisa tra una sorta di reazione conservativa al progresso e la salvaguardia di un modello di sviluppo più sostenibile. Coniata negli anni 80 del secolo scorso dall’American Nuclear Society, si basa su una concezione estremamente divisiva: se i sostenitori dell’evoluzione tecnologica e dello sviluppo sottolineano quanto la convinzione monolitica della cultura NIMBY causino una sistemazione delle risorse fondata sull’emotività piuttosto che sulla razionalità, paralizzando l’economia e frenando gli investimenti, l’assunto di base di chi protesta è invece che le grandi opere conducano a un declino multifocale: dalla devastazione ambientale alla perdita di identità culturale, dalla corruzione allo spreco di risorse pubbliche. Motivazioni che spesso inaspriscono il conflitto tra il cieco sviluppo affarista di molte amministrazioni e le comunità locali, sedicenti depositarie di modelli socio-economici ispirati alla sostenibilità. In entrambi i casi, si tratta di rappresentazioni semplicistiche che edulcorano la realtà: innanzitutto, quando si discute di sindrome di NIMBY è necessario considerare anche la propensione all’egoismo endogeno e sociale di talune comunità, sotteso all’ostacolare la realizzazione di un’opera pubblica sul proprio territorio ma non a quella dell’opera in sé, in quanto deve essere semplicemente realizzata altrove: un determinismo autoctono che nega il concetto di bene comune e di progresso (Mannarino, Roccato, 2012).

In secondo luogo occorre considerare i numerosi disastri ecologici connessi a grandi opere o progetti energetici: l’esempio più immediato, tra i tanti, è quello del fenomeno del fracking negli Stati Uniti. La tecnica della fratturazione idraulica consiste nel perforare il terreno fino a raggiungere le rocce contenenti i giacimenti di gas naturale e successivamente iniettare un getto ad alta pressione di acqua mista a sabbia, con altri prodotti chimici, per provocare l’emersione del gas. Tale tecnica ha destato preoccupazioni sul fronte ambientale: la prima riguarda l’enorme quantità di acqua che deve essere trasportata e utilizzata per l’estrazione del gas, un processo che causa sprechi e costi ambientali significativi. La seconda concerne l’uso di sostanze chimiche potenzialmente dannose che potrebbero contaminare le falde acquifere presenti intorno all’area di estrazione. Solo l’80 per cento del liquido iniettato nel foro torna in superficie come acqua di riflusso, il resto rimane nel sottosuolo.

La terza riguarda la possibilità che ci sia una correlazione tra il fracking e il verificarsi di scosse sismiche di lieve entità. Un caso che viene spesso citato è quello del 6 novembre 2011 quando un terremoto di magnitudo 5,7 ha colpito lo stato americano dell’Oklahoma dopo che un impianto aveva iniettato acqua ad alta pressione nel sottosuolo.

L’aspetto fondante si contestualizza in un’evidente ideologizzazione della materia, elemento che elide l’elemento davvero dirimente: la desiderabilità sociale, economica ed ambientale. Solitamente il conflitto tra gli oppositori e la volontà statale si innesca a prescindere dalla destinazione dell’opera: tale conflitto riguarda gli impianti per lo smaltimento dei rifiuti o di produzione di energia rinnovabile e spazia dall’edilizia classica fino alle strutture sportive, passando per i centri commerciali, per quelli di stoccaggio delle scorie nucleari, per i gasdotti o le grandi infrastrutture dei trasporti. Queste tipologie di conflitto non considerano la realtà multifocale della questione e, di fatto, negano un dialogo costruttivo (Spina 2010).

L’Italia, in questo senso, si palesa come un caso molto rappresentativo per una riflessione più specifica sulle istanze ideologiche in questione. Da una parte annovera molti movimenti contrari alle grandi opere: si possono citare i celeberrimi “No TAV”, ma anche i comitati, No Expo, No Triv, No MUOS, tutti attribuiti precipitosamente ai NIMBY. Dall’altra la percentuale delle grandi opere incompiute, interrotte perché sopraffatte da costi elevati o da ragioni di tipo ambientale è molto lunga: il Mose di Venezia, le infrastrutture per il gasdotto Trans Adriatic Pipeline, ed anche i tunnel per la Torino-Lione (Cascetta, 2019).

La Tav è il nome con cui si fa comunemente riferimento alla linea ferroviaria ad alta velocità che unisce Torino a Lione per il trasporto di passeggeri e merci. Il progetto, di cui si parla dagli anni Novanta, prevede la realizzazione di una linea lunga 235 chilometri che affiancherebbe la linea già esistente fra le due città.Tale tracciato, vero oggetto del contendere tra sostenitori e oppositori, è stato concepito e ufficializzato nel 2012 con un accordo tra Italia e Francia e si divide in tre parti: la tratta Susa/Bussoleno, di competenza della rete ferroviaria italiana, la tratta Susa- Saint Jean de Maurienne, di competenza della società Tunnel Euralpin Lyon-Turin, e la tratta Saint Jean de Maurienne-Lione, di competenza della società ferroviaria francese Sncf. Il 70% della linea è in territorio francese, il 30% in territorio italiano. Secondo la Corte dei Conti francese, la Tav Torino-Lione ha un costo complessivo di circa 26 miliardi di euro.Il punto che infiamma prepotentemente la contestazione si trova lungo la tratta Susa-Saint Jean de Maurienne, dove è prevista la realizzazione di un tunnel transfrontaliero di circa 57 chilometri, che ha un costo di 8,5 miliardi, di cui sono stati scavati 25 chilometri.

I fautori del progetto sostengono che con l’alta velocità tra Torino e Lione ci sarebbe una considerevole riduzione dei tempi di percorrenza della tratta, che amplificherebbe esponenzialmente la propria competitività continentale in termini di traffico merci. Chi invece si oppone alla Tav la considera un’opera anacronistica, obsoleta e troppo costosa rispetto ai benefici. Le proteste dei movimenti cosiddetti No-Tav sono iniziate già negli anni Novanta, ma sono esplose in particolare dal 2005 in Val di Susa con i primi espropri, connotate, in alcuni casi, da una violenza recrudescente e incontrollata.Tale questione ha fortemente diviso non solo l’opinione pubblica, ma anche le classi dirigenti che si sono alternate negli anni. Ad esempio essa ha ulteriormente fiaccato la coesione del governo giallo-verde: Lega e M5s erano su posizioni diametralmente opposte: favorevoli i primi, contrari i secondi tanto da averne fatto uno punto focale del loro programma politico.

Secondo l’analisi costi-benefici della commissione di esperti guidata dal professor Marco Ponti sulla linea alta velocità Torino-Lione, il progetto sarebbe un enorme spreco di soldi pubblici. I costi supererebbero i benefici di una cifra compresa tra i 7 e gli 8 miliardi.Nel caso in cui il governo dovesse decidere di non realizzare più l’opera, tra penali, spese e rimborsi il costo massimo sarebbe di 4,2 miliardi. La stima è stata fatta sommando gli importi contenuti nella relazione tecnico giuridica dell’analisi sulla Tav anche se determinare in maniera netta i costi è difficile perché ci sono variabili dipendenti da più soggetti. Il documento, infatti, è stato firmato da cinque dei sei esperti nominati dal governo giallo-verde.

La società incaricata della costruzione e della gestione della Torino-Lione, è la Telt. Fino a dicembre 2018 erano stati scavati 25 chilometri complessivi, pari al 15 per cento del totale. Sono 12 i cantieri attualmente operativi: 9 per i lavori destinati a realizzare l’attraversamento alpino, suddivisi per area geografica (4 in Italia e 5 in Francia), 2 per la valorizzazione dei materiali di scavo, sia in Italia sia in Francia e 1 per gli impianti tecnologici e di sicurezza. Al progetto lavorano 800 persone, 530 nei cantieri e 250 tra ingegneri e società di servizi. Lo scavo più importante, quello francese di Saint Martin la Porte, la galleria che sarà poi l’ingresso del tunnel di base, è stato completato. Nel cantiere di Chiomonte, invece, i lavori per il cunicolo geognostico di 7 km che servirà come accesso alla galleria principale sono terminati nel 2017. Le attività proseguono in Francia dove, come ha affermato pubblicamente la Telt nel marzo del 2019, lo scavo nel cantiere francese di Saint-Martin-la-Porte ha superato, con la fine di febbraio, il 77 per cento dei 9 km previsti (Ansa-Telt, 2017).
A fine giugno 2019 il consiglio d’amministrazione di Telt ha attivato la pubblicazione dei bandi per i lavori del tunnel in Italia, con il cofinanziamento dell’Unione europea arrivato al 55% per la parte internazionale.

La Telt, inoltre si è premurata di fornire alcuni dati essenziali che esteriorizzano numericamente lo stato dell’opera: 164 km totali di gallerie da scavare e 57,5 km per il tunnel di base del Moncenisio, opera principale della sezione transfrontaliera che si estende da Saint-Jean-de-Maurienne (Francia) a Susa (Italia); messa in servizio della linea prevista per il 2030; oltre il 18% dello scavo totale è già stato realizzato; i lavori sono suddivisi in 81 gare su 12 siti operativi. Al culmine delle attività, i cantieri avranno 4.000 posti di lavoro diretti e indiretti; l’80% della linea sarà dedicato al trasporto di merci, il 20% al trasporto passeggeri; il costo della sezione transfrontaliera è di 8,6 miliardi di euro. Al momento, il 40% è finanziato dall’Unione Europea, il 35% dall’Italia e il 25% dalla Francia.

La Torino-Lione consentirà di eliminare dalle strade alpine 1 milione di tir, ridurre le emissioni di circa 3 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, ridurre il tempo di viaggio per i viaggiatori: 1h 47” anziché 3h 47” per la tratta Torino-Lione, 4h 30’’ anziché quasi 7h per Milano-Parigi, circa 4h invece di circa 5h 30’’ per Torino-Parigi.
Dati che, ovviamente, gli oppositori al progetto ritengono fuorvianti e utopistici, sovrastati da danni ambientali irreparabili e da costi insostenibili (Rizzi, Tartaglia, 2015).

L’instabile politica italiana sfiora il conflitto tra le parti attraverso la propensione tipicamente cerchiobottista a procrastinare le scelte per non intaccare il consenso, una modalità descritta efficacemente da un altro acronimo: NIMTO, “not in my terms of office” ovvero “non durante il mio mandato”. Una propensione che neutralizza la cieca accondiscendenza legata alle logiche del capitalismo, diviso tra sussidi pubblici e corporativismo, ma, al contempo, mitiga il rifiuto dei no, che hanno forza sociale ma non rappresentanza politica, se non quella volubile del movimento 5 Stelle. I movimenti sopracitati nella loro critica e nelle loro battaglie contro questa tipologia d’investimento tuttavia non offrono, a causa del loro rifiuto aprioristico in alcuni casi, nemmeno la possibilità di uno sviluppo economico circolare e, paradossalmente, ecologicamente sostenibile.

Tuttavia esiste anche una sindrome NIMBY istituzionale, opportunistica o burocratica, che si palesa nelle strumentalizzazioni che la politica catalizza nell’opinione pubblica contro gli impianti di riciclaggio o di smaltimento dei rifiuti o contro gli impianti del fotovoltaico o dell’eolico, ma anche nei ritardi istituzionali della legislazione nel favorire la riconversione energetica e ambientale tout court, dai sussidi green alle semplificazioni burocratiche.La sindrome NIMBY, con i suoi postulati antipolitici e antiprogressisti, non è una questione irrisolvibile. La soluzione risiede nel dialogo tra le parti, nella trattativa bilaterale, nel consenso informato, ma soprattutto nel coinvolgimento delle comunità interessate nel processo decisionale dell’opera, per valutare di concerto conseguenze, vantaggi e finalità (Spina, 2010).
Nimby non può essere sinonimo di stigma: le criticità ambientali non possono essere relegate a rappresentazioni fittizie o a mere contrapposizioni manichee, che non rendono giustizia alla complessità di una delle battaglie politiche fondamentali dei prossimi decenni. I movimenti e l’attivismo politico locale contro le grandi opere anti-ecologiche possono contribuire in modo inestimabile alla riconversione ambientale e al superamento di un capitalismo anacronistico, malcelato da pratiche di greenwashing e tutelato dal negazionismo climatico. Tuttavia anche una protesta fine a sé stessa, che non tenga in giusta considerazione il progresso, anche se connotato dal rispetto ambientale, ne nega di fatto la possibilità e il futuro di una comunità: un futuro che non passa attraverso i gasdotti o i tunnel, ma sicuramente annovera la presenza nel proprio cortile di pannelli fotovoltaici e veicoli elettrici.

Parole chiave: conflitti, Nimby, geopolitica interna, comunicazione, trasporti.

Bibliografia

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Cascetta E. a cura di, Perchè TAV: risultati, prospettive e rischi di un Progetto Paese, il Sole24ore, Milano 2019, pp. 140-190.
Chomsky N., Barsamian D., Sistemi di potere. Conversazioni sulle nuove sfide globali, Ponte alle Grazie, Firenze 2013, pp. 75-90.
Fredi A., Mannarini T. a cura di, Oltre il Nimby: la dimensione psico-sociale della protesta contro le opere sgradite, Franco Angeli, Milano 2008, pp. 140-150.
Khanna P., Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale, Fazi, Roma 2016, pp. 320-350-
Mannarino T, Roccato M., Non nel mio giardino. Prendere sul serio i movimenti Nimby, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 85-100.
Rizzi G., Tartaglia A., Il tav Torino-Lione. Le bugie e la realtà, Intra Moenia, Napoli 2015, pp. 120-130.
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Sitografia

https://diggita.com/story.php?title=TAV_Torino-Lione_pro_e_contro (sito consultato in data 04/03/2020).
https://www.lastampa.it/topnews/edizioni-locali/torino/2020/01/25/news/la-tav-riparte-anche-in-italia-nel-2020-appalti-per-quasi-5-miliardi-1.38380022 (sito consultato in data 25/02/2020).
https://www.latitudeslife.com/2012/07/tav-si-o-no-pro-e-contro-della-vicenda-che-divide-litalia/ (sito consultato in data 01/03/2020).
https://www.wallstreetitalia.com/tav-pro-e-contro-del-progetto (sito consultato in data 23/02/2020).
https://www.valigiablu.it/tav-torino-lione-lavori-costi/ (sito consultato in data 25/02/2020).